Le serve - Teatro Ambra 12 Febbraio - recensione


L’apparenza ingannevole e la realtà squallida, la pretesa di sopraffazione e l’umiltà sottomessa, gli abiti sontuosi e la divisa domestica. Queste le tante contraddizioni che si sovrappongono in un alternarsi continuo di finzione e realtà, laddove uomini interpretano donne (come nell’intenzione originaria di Genet), l’omicidio diventa rivalsa, anche se commesso nell’ambito di un gioco, e l’odio e l’amore non si distinguono più.
La vicenda è surreale, i due protagonisti interpretano le due sorelle Lemercier, domestiche sopraffatte da un gioco folle nel quale interpretano loro stesse e la loro padrona, coltivando un odio che fa culminare ogni volta la finzione con la simulazione sempre più verosimile dell’omicidio della signora. I gesti non sono neppure minimamente femminili, ma brutali e sempre violenti. Volutamente i volti vengono atteggiati a maschere grottesche dipinte di bianco e rosso sulle labbra. La pièce si apre con la furia distruttrice delle due sorelle nei confronti di un interno borghese buio e illuminato da luci stromboscopiche, che rendono i gesti irreali e privi di ragione. La follia iniziale prosegue in un dialogo con le spalle alla platea, laddove ognuno dei protagonisti parla con la propria immagine allo specchio, interpretando l’uno se stesso, l’altro la signora. Gli specchi sono la chiave dell’illusione che avvolge completamente lo spettatore e il gioco diventa molto più drammatico della realtà, perché perde ogni gentilezza formale e consente ai ruoli una brutalità feroce. Ma l’odio non è totale, si vena di sfumature di attaccamento malato (“la signora è buona, è bella, è gentile”, ripetuto come un mantra) e di desiderio di sopraffazione, al fine di possedere quanto a lungo desiderato.
Solo un sacrificio finale può terminare una spirale di pazzia alimentata sino alla conseguenza estrema e la scelta di portare al limite ultimo il gioco è stigmatizzata nel finale da un’immobilità statuaria. Sulla scena rimane il momento preliminare all’omicidio e un suonatore di fisarmonica, come nell’apertura dello spettacolo, che propone un motivo sinistramente allegro.
Veramente bravi Alessandro Macchi e Francesco Leschiera nell’interpretare ruoli volutamente grotteschi eppure ricchi di sfumature e continue variazioni. Non viene mai sfiorato l’aspetto caricaturale, poiché  i volti deformati e la brutalità esagerata sono funzionali alla finzione crudele e nulla eccede la necessità espressiva, mentre tutto serve ad accrescere il dramma.  La tensione è continua e il taglio registico è volto a comprendere lo spettatore in un crescendo drammatico dal quale i protagonisti non riescono a svincolarsi, pur comprendendone anticipatamente l’epilogo. Uno spettacolo notevole. 

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