Servo di scena - 26 febbraio - Teatro Alessandrino - recensione


Un periodo storico definito (1940, Londra sotto il bombardamento nemico) , un luogo preciso e una compagnia che mette in scena Re Lear di Shakespeare.  Il contesto è ben delineato e la tragedia di un attore a fine carriera che recita la sua ultima pièce, seppur in punto di morte, diventa  simbolo di “lotta e sopravvivenza” legato sia al periodo che alle difficoltà del lavoro nel teatro. Ma questo è solo il punto di partenza da cui si dipanano le emozioni e i sentimenti dei componenti della compagnia teatrale, sempre in bilico tra finzione, stenti e sofferenze mai ripagate. Alla figura di Sir Ronald, il capocomico,  si rapportano, con atteggiamenti e stati d’animo diversi , gli altri protagonisti, tra cui il fedele e mai riconosciuto servo di scena. Il dramma della salute di Sir Ronald appartiene principalmente a lui, che incarna la devozione ad oltranza e il rispetto senza limiti del pubblico pagante. Norman (il servo) si adopererà con ogni mezzo per evitare l’annullamento dello spettacolo preannunciato per la sera, assistendo e accudendo con tutto se stesso il suo padrone debole, infiacchito e decisamente offuscato nella memoria. Ciò che lo spinge al di là di ogni ragionevolezza è un’etica intransigente che fa del teatro l’espressione più seria e doverosa della vita, laddove tutto si deve e tutto si sacrifica per un supremo fine. Il suo senso del dovere si fonde con un sentimento di amore e attaccamento per colui che ha servito per tanto tempo. Un amore di pari intensità, è provato dalla regista di scena, da sempre innamorata, mai ricambiata, di Sir Ronald, sino all’annullamento di se stessa e della sua vita trascorsa nell’attesa e nell’ombra.  Come il lavoro nel teatro appare colmo di sacrifici mai pagati, così questi sentimenti così forti e mai rivelati sembrano nutrirsi della gratuità più completa. Norman non sarà neppure ricordato, come la triste innamorata, nei ringraziamenti preliminari all’autobiografia dell’attore e la sua esistenza oscura sembrerà naufragare nei singhiozzi e nella disperata ebbrezza etilica di fronte all’ormai cadavere del capocomico.
La regia di Branciaroli punteggia il testo di sfumature ironiche molto inglesi, stemperando il dramma e giocando sul personaggio del servo che mente, simula e ricorre ad ogni mezzo per non far annullare lo spettacolo. Lo stesso humor riemerge durante i bombardamenti, potenziali alleati nel simulare una tempesta durante lo spettacolo. Si sorride molto e il taglio è, a tratti, decisamente comico di una comicità ben diretta e mai dispersiva. Emerge la recitazione di Norman, il servo di scena, che passa da registri comici ad una drammaticità assoluta, da toni servili ad altri decisionistici e impositivi, persino aggressivi contro un’attricetta arrivista , potenziale fonte di inquietudine e malessere per Sir Ronald, sempre attirato dalla gioventù e dall’avvenenza, nonostante l’età e la malattia. Franco Branciaroli, nel ruolo del capocomico, esprime tutto l’orgoglio di una carriera il cui merito ha trovato solo ricompense morali e, al contempo, tutta la stanchezza e il peso di una vita di sfide.
Splendida la scenografia su due piani. Al piano del palcoscenico sono ricostruiti i camerini e, su un secondo piano sovrapposto, le quinte dietro il palco dove , attraverso un telo, si vedono gli attori recitare il Re Lear, mentre le macchine di scena ricreano effetti visivi e sonori. I protagonisti recitano passando da un piano all’altro e l’effetto è trascinante, la finzione diventa il motore della realtà, come la loro vita, le loro fatiche e le loro speranze deluse diventano universali e significative.
Spettacolo di grande impatto e attori veramente molto bravi, da non perdere. 

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