Il Pool - (gentile concessione Gino "Baleta" Gemme) |
Il Bar Baleta poteva certo essere considerato un club o un circolo culturale, ma essenzialmente la sua natura primigenia che lo caratterizzava e per cui era nato, era quella di essere un bar con biliardo. La sala biliardi, in effetti era la più vasta e specifica che si potesse immaginare, un vero e proprio tempio di questo gioco, anche perché il locale era dotato di colonne, mi par di ricordare, ma qui chiedo l'aiuto dei frequentatori di un tempo, enormi e in pietra, con ampie volte, tali da ricordare la cripta romanica di una cattedrale, il ché dava all'ambiente la giusta sacralità. I biliardi erano cinque, ben disposti, tre per il lungo e due per il largo e correttamente distanziati in modo che i giocatori non si intralciassero tra di loro. Lontana dai rumori della strada, che d'altronde dava nel vicolo, ci si poteva accedere solo attraversando le altre sale del bar e quindi risultava il punto finale di arrivo per coloro che erano dediti all'arte del panno verde. Qui gli appassionati si dividevano subito in due categorie senza punti di contatto tra di loro, in pratica due specie diverse che parlavano lingue non comunicanti. I cultori delle boccette e quelli della stecca. Mentre per le boccette il clan era decisamente più chiuso, essendo praticato una sola tipologia di gioco, con i maestri che si annoveravano tra i senatori del bar ed i dilettanti che quando i tavoli erano lasciati liberi si cimentavano negli appoggi o nei tiri più difficili che avevano appena ammirato, i giocatori di stecca invece erano una fauna più varia e in generale più giovane. Ma altre erano le categorie kantiane della fauna locale.
Dice Gino: come in ogni termitaio organizzato, esistevano due tipi di matricole: i "mandibolati" e i "nasati". Mentre i grandi giocatori erano racchiusi nella seconda, nella prima categoria viveva anche la sottospecie dei "convinti". Scarsi nel gioco, usavano l'apparato boccale per magnificare illustrandole le loro presunte giocate magistrali (me chi..., me là...); erano chiamati i "baccagliatori". Ricordo un grande giocatore, di cui mi sfugge il nome, maestro nell'arte della candela, che affermava essere la vera chiave del gioco delle boccette, un tiro che se usato con perizia assoluta era da solo capace di essere decisivo in ogni partita. Un altro, grande artista delle due sponde, accarezzava a lungo la palla tra le mani, soppesandola con noncuranza tra una mano e l'altra, poi si allargava portando il busto al di fuori del bordo del biliardo e con un movimento morbidissimo e sempre uguale lanciava delicatamente e con la giusta forza. La boccia cadeva sul panno quasi senza rumore poi, pur sembrando il lancio troppo debole all'inizio, correva fluida colpendo le due sponde all'angolo alto per poi arrivare implacabile nel gruppo di bocce sulla sponda bassa, si faceva appena largo tra di esse e come per magia si attaccava al pallino blu, sempre uguale, sempre perfetta, un miracolo. C'erano poi i bocciatori professionisti. Il socio puntatore vinceva invariabilmente l'acchito e loro prendevano il pallino, lo appoggiavano lentamente appena al di là della linea oltre gli ometti, un attimo per concentrare la mira e poi il lancio secco e implacabile, ogni colpo un filotto.
Nella stecca invece, il gioco subì nel tempo diverse mode, alcune passeggere, altre più durature, anche se la variante più correntemente praticata era quella classica all'italiana, con alcuni cultori specifici della goriziana. Uno invece, caduto col tempo in disuso era la cosiddetta "Pula", in cui ogni giocatore pescava una carta che rimaneva nota solo a lui, da cui partiva il conteggio dei suoi punti per arrivare a 21, cifra che doveva essere fatta esattamente, con gli ometti che valevano dall'1 al 5. Un gioco interessante che aumentava le possibilità dei giocatori di precisione includendo anche una variabile psicologica per capire quanti punti mancavano all'avversario per concludere la partita e giocare quindi con una conseguente difesa. Mi sembra che Capra lo praticasse con profitto, anche se era tecnicamente un gioco compreso nella tabella dei giochi proibiti, forse perché la carta pescata era considerata, ingiustamente, parte di un azzardo. Pochi cultori ebbe invece la Carolina, variante con i birilli sparsi sul tavolo. La carambola francese ebbe anch'essa breve spazio, ma Gino, sempre attento alle tendenze e in cerca di nuova offerta per incrementare gli affari, subito dotò la sala di un marchingegno che inserito sopra il tavolo da biliardo tradizionale, lo restringeva riducendolo alle misure corrette. Poi arrivò anche sugli schermi alessandrini il film Lo spaccone, con uno spettacolare Paul Newman che subito destò l'interesse sul Pool, battezzato da noi come Carambola americana.
Prontamente Gino dotò la sala di due o tre set delle ben note 15 piccole bocce, colorate e numerate, che appassionavano le discussioni del bar, dove come al solito tutti si autoproclamarono immediatamente esperti in grado non solo di giocare, ma di ripetere i colpi clamorosi del film. I risultati erano ovviamente modesti anche perché il tavolo e la dimensione delle buche non erano quelli regolamentari e il gioco era comunque un adattamento che, tuttavia, ebbe per parecchio tempo un grande successo. La sala biliardi, comunque, rimase per molto tempo un locale riservato agli appassionati ed ai senatori del bar; i ragazzini chiassosi, al di fuori di quelli che bigiavano la scuola o delle prime ore del pomeriggio, non erano ben visti, anche per gli eventuali danni che potevano provocare con la loro imperizia. Angelo, in versione Cerbero, per mantenere un certo controllo sullo schiamazzare inutile e lo stesso Gino di tanto in tanto buttavano un occhio indagatore con la scusa di servire qualche consumazione, per controllare che non sopravvenisse, improvvido e temutissimo, il famigerato "strappo" del panno causato dall'imperizia nel maneggio della stecca, che l'incapace, volendo eseguire qualche colpo troppo fine per le sue possibilità, invece di dare il giusto "zembo" alla bilia, finisse con la punta della stecca a squarciare il delicato panno, facendo poi finta di nulla, come se il disastro fosse già presente sul tavolo e altri il colpevole. La minaccia: primo strappo Lire 5000, era una spada di Damocle in agguato, anche se non mi risulta sia mai stata applicata.
Dice Gino: come in ogni termitaio organizzato, esistevano due tipi di matricole: i "mandibolati" e i "nasati". Mentre i grandi giocatori erano racchiusi nella seconda, nella prima categoria viveva anche la sottospecie dei "convinti". Scarsi nel gioco, usavano l'apparato boccale per magnificare illustrandole le loro presunte giocate magistrali (me chi..., me là...); erano chiamati i "baccagliatori". Ricordo un grande giocatore, di cui mi sfugge il nome, maestro nell'arte della candela, che affermava essere la vera chiave del gioco delle boccette, un tiro che se usato con perizia assoluta era da solo capace di essere decisivo in ogni partita. Un altro, grande artista delle due sponde, accarezzava a lungo la palla tra le mani, soppesandola con noncuranza tra una mano e l'altra, poi si allargava portando il busto al di fuori del bordo del biliardo e con un movimento morbidissimo e sempre uguale lanciava delicatamente e con la giusta forza. La boccia cadeva sul panno quasi senza rumore poi, pur sembrando il lancio troppo debole all'inizio, correva fluida colpendo le due sponde all'angolo alto per poi arrivare implacabile nel gruppo di bocce sulla sponda bassa, si faceva appena largo tra di esse e come per magia si attaccava al pallino blu, sempre uguale, sempre perfetta, un miracolo. C'erano poi i bocciatori professionisti. Il socio puntatore vinceva invariabilmente l'acchito e loro prendevano il pallino, lo appoggiavano lentamente appena al di là della linea oltre gli ometti, un attimo per concentrare la mira e poi il lancio secco e implacabile, ogni colpo un filotto.
Nella stecca invece, il gioco subì nel tempo diverse mode, alcune passeggere, altre più durature, anche se la variante più correntemente praticata era quella classica all'italiana, con alcuni cultori specifici della goriziana. Uno invece, caduto col tempo in disuso era la cosiddetta "Pula", in cui ogni giocatore pescava una carta che rimaneva nota solo a lui, da cui partiva il conteggio dei suoi punti per arrivare a 21, cifra che doveva essere fatta esattamente, con gli ometti che valevano dall'1 al 5. Un gioco interessante che aumentava le possibilità dei giocatori di precisione includendo anche una variabile psicologica per capire quanti punti mancavano all'avversario per concludere la partita e giocare quindi con una conseguente difesa. Mi sembra che Capra lo praticasse con profitto, anche se era tecnicamente un gioco compreso nella tabella dei giochi proibiti, forse perché la carta pescata era considerata, ingiustamente, parte di un azzardo. Pochi cultori ebbe invece la Carolina, variante con i birilli sparsi sul tavolo. La carambola francese ebbe anch'essa breve spazio, ma Gino, sempre attento alle tendenze e in cerca di nuova offerta per incrementare gli affari, subito dotò la sala di un marchingegno che inserito sopra il tavolo da biliardo tradizionale, lo restringeva riducendolo alle misure corrette. Poi arrivò anche sugli schermi alessandrini il film Lo spaccone, con uno spettacolare Paul Newman che subito destò l'interesse sul Pool, battezzato da noi come Carambola americana.
Prontamente Gino dotò la sala di due o tre set delle ben note 15 piccole bocce, colorate e numerate, che appassionavano le discussioni del bar, dove come al solito tutti si autoproclamarono immediatamente esperti in grado non solo di giocare, ma di ripetere i colpi clamorosi del film. I risultati erano ovviamente modesti anche perché il tavolo e la dimensione delle buche non erano quelli regolamentari e il gioco era comunque un adattamento che, tuttavia, ebbe per parecchio tempo un grande successo. La sala biliardi, comunque, rimase per molto tempo un locale riservato agli appassionati ed ai senatori del bar; i ragazzini chiassosi, al di fuori di quelli che bigiavano la scuola o delle prime ore del pomeriggio, non erano ben visti, anche per gli eventuali danni che potevano provocare con la loro imperizia. Angelo, in versione Cerbero, per mantenere un certo controllo sullo schiamazzare inutile e lo stesso Gino di tanto in tanto buttavano un occhio indagatore con la scusa di servire qualche consumazione, per controllare che non sopravvenisse, improvvido e temutissimo, il famigerato "strappo" del panno causato dall'imperizia nel maneggio della stecca, che l'incapace, volendo eseguire qualche colpo troppo fine per le sue possibilità, invece di dare il giusto "zembo" alla bilia, finisse con la punta della stecca a squarciare il delicato panno, facendo poi finta di nulla, come se il disastro fosse già presente sul tavolo e altri il colpevole. La minaccia: primo strappo Lire 5000, era una spada di Damocle in agguato, anche se non mi risulta sia mai stata applicata.
Lo strappo al panno verde - (gentile concessione Gino "Baleta" Gemme) |
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