Can Can - Teatro Alessandrino - g 23 febbraio - recensione

La Parigi della Belle Epoque è ricostruita con un’atmosfera festosa che ruota intorno alla gioia di godere della vita e di infrangere tabù e limiti al piacere. La scenografia è funzionale allo spettacolo prevalentemente musicale, il cui asse portante, intorno ad una minima storia, sono le canzoni di Cole Porter,
tradotte in italiano ed egregiamente cantate, e le belle danze che le accompagnano.  La scena è incorniciata da due rampe di scale laterali che confluiscono in una balconata prospiciente lo spazio centrale e, man mano, lo stesso scenario si presta a diventare locale notturno laddove si balla il famigerato e illegale can can, bistrot del centro Parigino, aula di tribunale e carcere.  I pochi arredi che consentono il cambiamento continuo di ambiente sono trasportati con la leggerezza di un passo di danza dagli stessi protagonisti, mentre un quadro sul fondale ruota su se stesso e presenta una cattedra da giudice, un tavolino da locale pubblico o un manifesto che pare tratto dall’atelier di Toulouse Lautrec.  La vicenda narra del ballo spudorato che infranse le opposizioni moralistiche dell’epoca ed è intrecciata a storie d’amore dall’inevitabile lieto fine. Il resto è musica, ottime voci cantanti, bravi ballerini e costumi sontuosi che cambiano in continuazione , dandoci l’idea di un’età perduta, ricca, felice e spensierata. Direi  una buona interpretazione dell’originale, grazie alla compagnia numerosa e veterana del genere di Corrado Abbati . Per chi ama l’operetta e il musical, sicuramente uno spettacolo curato, elegante e impreziosito da ottime voci da non perdere.

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