Una specie
di Alaska è un atto unico di Harold Pinter ispirato ad un episodio del libro “Risvegli”
del neuropsichiatra Oliver Saks , che ebbe in cura pazienti affetti da
encefalite letargica, risvegliati solo alla scoperta di un farmaco a base di
dopamina.
Deborah si
risveglia dopo 29 anni di sonno forzato, con il corpo di una donna adulta e i
ricordi di un’adolescente, desiderosa di incontrare il fidanzato, di scherzare con le due sorelle e di essere
protetta e amata dai genitori.
Sulla scena
la camera di un ospedale e il medico (Nicola Pannelli) che ha curato la donna per tutto il periodo
della degenza. Il loro dialogo, difficile e a tratti stringato, riporta l’adolescente
incredula ad una realtà che non può essere né emotivamente né razionalmente accettata.
Sara Bertelà
è una ragazzina nel corpo di una donna e la sua inconsapevolezza si fa parola e
riso adolescenziale. Parla di sé come una giovane appena affacciatasi alla vita
con la certezza immortale di chi sa di avere ancora tutte le scelte davanti e
la sua voce è quella di una sedicenne allegra che si definisce “ridolina”. La
presa di coscienza è lenta e non graduale; ciò che Deborah scopre viene da lei
subito dopo rinnegato, in quanto apparentemente impossibile, come la presenza
della sorella Pauline (Orietta Notari), ormai adulta e irriconoscibile.
I dialoghi
tra i personaggi sono misurati, mai eccessivi nella drammatizzazione e proprio
nella contenutezza sta la tragedia umana dell’esistenza perduta. Le poche
nozioni tra verità e bugia fornite a Deborah dal medico e dalla sorella sono un
passaggio traumatico tra il mondo non cosciente del sonno, un’Alaska dal
paesaggio sempre identico e dall’orizzonte infinito, ad una realtà diventata
estranea e irrecuperabile.
La regia di
Valerio Binasco concentra tutta l’attenzione sulla bravura degli attori, sulla
loro capacità di esprimere non gridando e di alimentare, con la loro
credibilità, la tensione emotiva in un contesto scarno e statico. La sensazione
del trascorrere del tempo è data dal rumore di una goccia che cade continua, una
condanna cui è impossibile sottrarsi, come è impossibile recuperare ciò che non
si è vissuto.
Un’ottima
interpretazione che mette lo spettatore di fronte ad un risveglio che si dipana
come un incubo i cui particolari diventano sempre più agghiaccianti, sino ad indurre
a preferire l’inconsapevolezza dello stato di incoscienza al ritorno ad una
vita irriconoscibile.
Nicoletta Cavanna