Le parole
raccontano e illustrano, talvolta suggestionano. Se proferite con fascino e
scioltezza, evocano mondi che prendono forma nelle menti e si mostrano vividi
attraversando le barriere del tempo. Massimo Poggio, Gualtiero Burzi e Matteo
Marsan, in “Bottecchia ‘23”, raccontano
di un tempo che ci appare lontanissimo, dove il mito dello sport si accomunava
alla miseria più cruda e dove lo spirito agonistico era una necessità di
sopravvivenza, prima che amore per una disciplina o desiderio di vittoria. Ottavio
Bottecchia conosce una povertà che sa di fame, combatte nella prima guerra
mondiale nei bersaglieri ciclisti e vi sopravvive portandone i segni sul corpo
provato dalla denutrizione. Il ciclismo per lui è un lavoro per
garantire la sopravvivenza alla sua famiglia, nulla conta il successo e il
sacrificio è da sempre l’aspetto prevalente della sua vita. In una lotta
dettata dalla disperazione, con il corpo contorto sulla bicicletta, che appare
una “macchina commovente”, e un viso quasi deforme che tanto viene commentato
dai giornalisti, compie l’impresa insperata di affermarsi nel tour de France
del ’23, diventando, pur brutto e goffo,
un eroe e un simbolo.
Il racconto
a tre voci passa attraverso le fasi del suo arruolamento nella squadra
dell’Automoto, della poca credibilità che gli viene attribuita a causa della
sua rozzezza , dell’ostilità da parte dei colleghi francesi e del ritorno in
Italia in pieno periodo fascista, momento in cui un eroe nazionale deve aderire
obbligatoriamente al regime. Tanti i tranelli e pericolosi i giochi di ruolo e
di potere che ruotano intorno ad una manifestazione così importante, ma
Bottecchia non viene scalfito da alcuna mira personale, la povertà da cui
proviene sostiene in lui il solo obiettivo di guadagnare e, quindi, di fare ciò
che gli è imposto: il gregario che non vince , ma fa vincere il campione
francese. I tre protagonisti ricreano i rumori della gara, le cronache dei
giornalisti (con il sottofondo del ticchettio della macchina da scrivere), le
convocazioni del nostro ciclista presso i vertici dirigenziali della squadra e
presso il cosiddetto “maresciallo” Boger, sprezzante verso di lui a causa del
suo aspetto sgradevole e impacciato. Passano da una parlata veneta ad una
milanese, bolognese e francese con una facilità che appare naturale e del tutto
priva di sforzo. Creano ora momenti di
riflessione ora atmosfere di confusione affollata.
Un turbinio
di pensieri, che girano confusamente, si affolla nella mente di Bottecchia. Le voci sovrapposte e corali,
nella loro interdipendenza, dei tre lettori iniziano e terminano la serata
proponendoci il vortice di ricordi del protagonista con il ritmo delle
preoccupazioni e degli affanni che impediscono la chiarezza espositiva e la
risoluzione degli stessi.
Splendida la
lettura di Massimo Poggio, Gualtiero Burzi e Matteo Marsan (quest’ultimo dotato
di un timbro profondo che sottolinea in modo particolare aspetti drammatici),
sempre convincente e affascinante nel portarci in luoghi e tempi lontani e nel
ricreare realtà che balzano improvvisamente davanti agli occhi. Alle loro
spalle la bella e semplice scenografia, formata da sagome che rappresentano la
tour Eiffel, i Pirenei e un treno ( “in Francia si va per fame”, il viaggio per
necessità), si anima e ci trasporta attraverso le tappe di una competizione
sportiva che si identifica con la vita stessa.
Teatro colmo
e visibile e meritato apprezzamento del pubblico.
Nicoletta Cavanna