Bàti la fisica.

Sentire l'amico Franco Castelli che parla di miti, leggende, modi di dire e della cultura contadina che permea la nostra vecchia città fin dalle sue origini, è davvero un piacere unico. L'altra sera alla Gambarina, si è davvero superato con un excursus che partiva da Gelindo, attraverso tutte le storie alessandrine, la regina Pedoca, Baudolino e la Fia du Sendic di'Ort, fino ad arrivare alle glorie del Bar Baleta e delle Borsaline. Tra i tanti cenni che la sua sterminata cultura sull'argomento, ha riportato a galla nei nostri ricordi, ho ritrovato un modo di dire, davvero curioso che avevo dimenticato, avendolo sentito da mia mamma solo una sessantina di anni fa o più. Come Franco ha riccamente illustrato in un articolo del 1997 sul mensile La città, Alessandria e soprattutto le sue campagne erano, come la maggior parte degli altri luoghi contadini, pervasi da leggende e racconti paurosi, che i vecchi raccontavano nelle veglie nelle stalle, la sera, prima di andare a dormire, scaldandosi al fiato delle mucche e che i bambini  ascoltavano con gli occhi spalancati e pieni di paura. 

Racconti di streghe e di fantasmi, come combatterli e come tenerli sapientemente lontano, magari buttando in mezzo all'aia gli arnesi da camino (le molle e 'l barnass) in forma di croce, che per soprappiù durante i temporali potevano riparare anche dal fulmine, calamità assai pericolosa, tanto che il proverbio: uarti da la lësna, da u tròn e da cùi chi àn 'l culùr du savòn (guardati dal fulmine, dal tuono e da quelli che hanno il colore del sapone, i tubercolotici, pericolosi infettivi) la cui terza parte ha dato luogo ad innumerevoli varianti in rima  (famosa quella: d'l'asichiratùr Bausòn, ad esempio). Eventi naturali o stregoneschi, che avvenivano a causa delle forze primigenie della natura, ma anche procurati, dai sapienti, dagli istruiti, preti in prima fila, cùi chi àn stidià (quelli che hanno studiato), che per il popolino hanno sempre un lato maligno e pericoloso e che utilizzano queste capacità, oggi diremmo questi skills, soprattutto per gabbare la povera gente. 

La mia mamma, quando non andavo ancora a scuola, mi portava sempre con lei a fare la spesa e al lunedì, giorno di mercato c'era sempre una certa confusione nelle vie del centro alessandrino, non come adesso che pare la città dei morti, percorsa solo dalle ombre curve degli anziani che la popolano, sempre meno numerosi. Allora c'erano banchi di ogni genere, compresi quelli che vendevano la colla tedesca miracolosa, che affascinava mio padre, il cinese che offriva le cravatte o quello che mostrava le peculiarità di panacea universale del Grasso di tigre, che altro non era che il Tiger Balm che già allora arrivava dall'Oriente e che ritrovai tanti anni dopo ad Hong Kong (che già allora il mio destino volto ad est, fosse segnato?). 

Un giorno in via Dante, si era formato un capannello di gente che guardava incuriosita un tizio, un po' misterioso ch'el fava balè i buratén (faceva ballare i burattini). Probabilmente mediante fili di nylon nascosti , muoveva due figurine dagli arti snodati che parevano camminare, muoversi, fare inchini a comando e che davvero, a me bambino meravigliato, parevano muoversi di vita propria e comandati a saltellare dagli ordini di un mago misterioso. Forse la gente allora era ancora dotata di una candida ingenuità, ma stavano tutti incantati a guardare il balletto fatato, che poi il mago vendeva in scatole in cui, assicurava, c'erano tutte le spiegazioni per ripetere a casa propria il miracolo. Io ero incantato a guardare, ma la mia mamma mi teneva la manina con una presa forte e sicura, trattenendomi lontano e quasi subito mi disse: Andiamo via, ch'isi i sòn gent chi batu la fisica (che quelli sono gente che battono la fisica). Un modo di dire curioso, in cui è racchiuso tutta la meraviglia mescolata al timore verso coloro che studiano nei libri spessi, pieni di segni misteriosi, appunto i libri di fisica, preparandosi con la loro sapienza a fregare il prossimo. 

(vedi la bella poesia di Rapetti il poeta dialettale di Villa del Foro: Ra fisica, materia associata dal volgo alla stregoneria e al mondo dell'al dil à, di cui vi riporto una quartina:
Capì ch'is favu vighi, 't spauentavu / 'nt er stali, da maznà, i vègg quintavu / fa dì na mesa ai mòrt, o du, sparisu / 'r prèvi l'à u libi, chil se 'r vo parisu.
Capivi  che  erano apparizioni spiritiche,  ti  spaventavano  / nelle  stalle, da bambini, i vecchi raccontavano / se fai dire  una messa o due ai morti, spariscono /ma  il prete ha il libro, lui  se vuole li fa apparire) 

Quante volte lei lo avrà sentito nella stalla del cascinotto in cui, bambina, passava le sere senza altro che i racconti dei vecchi, alla luce fioca di una lanterna. Storie che certo aveva dimenticato, ma che le avevano inculcato questa importanza vitale di appropriarsi del sapere, il potere dei "libri", che ha cominciato a comprarmi fin da piccolo, lei che aveva fatto solo la terza elementare, quantomeno perché in futuro non mi facessi fregare da chi lo possedeva, il sapere. Questa fisica misteriosa che dava poteri, e chissà perché si doveva "battere". Una necessità assoluta che ha preteso almeno per suo figlio, ponendo come priorità assoluta proprio quella che studiassi, a costo di ogni suo sacrificio. Che un giorno anche il suo bambino fosse tra quelli ch'i batu la fisica, forse lo ha sempre sognato; così, col tempo, me ne sono appropriato un po' anch'io della fisica, anche se alla fine non mi è servita per fregare nessuno.

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