Il ponte Cittadella nel 2006 |
Pensate che una volta nei due fiumi alessandrini c'erano i pesci! Cose che un ragazzo di oggi stenterebbe a credere. Erano di tre tipi, che il nostro dialetto sghembo faceva suonare come: i quajaster, i stric' e 'l cipii. C'era sempre qualche pescatore che con delle piccole reti si appostava vicino al ponte della ferrovia al Bormida o dopo il ponte Cittadella (abbattuto indecentemente nel cuore della notte ad agosto) sul Tanaro e passavano la giornata a calare e tirare su. Mio papà mi portava ogni tanto, quando ancora non andavo a scuola, dopo avermi appollaiato su un sellino che aveva montato sulla canna della bicicletta, sul ponte. C'era una specie di balconcino che si estendeva verso il fiume e ti dava la sensazione di essere sull'acqua. Io mi godevo quella vertigine improvvisa, come una sorta di piacere, di brivido, mitigato dalla mano sicura che mi teneva avvolto. Guardavo giù e aspettavo che l'uomo sul barcé, la tozza barca da fiume su cui stava seduto, si scuotesse dal suo apparente torpore e con uno sforzo di braccia che appariva potente, sollevasse il bastone che teneva tra le mani. Questo si fletteva, ogni volta quasi fino a spaccarsi; guardavo il filo appeso che si tendeva, alzandosi a poco a poco, poi i quattro angoli della rete emergevano a fatica dal flusso della corrente. C'era come una forza maligna che la tratteneva verso il basso; quasi ci volevi indovinare qualcosa di grosso e pesante, una pesca miracolosa che quella volta avrebbe riempito la barca. Allegavo gli occhi nello stupore gioioso della cattura, forse l'istinto del predatore alberga nel fondo di ogni uomo. Invece era solo il gran peso dell'acqua che a poco a poco sfuggiva verso il basso, liberando la rete dallo sforzo, finché con un ultimo strappo l'ultimo punto si liberava del fiume con un piccolo strappo che la faceva quasi schioccare.
Al centro, invece del tesoro atteso, tre o quattro sottili fettucce d'argento saltellavano impazzite. Erano gli stric', gli "stretti" appunto, piccoli pesciolini dai ventri magri e allungati. Il pescatore, inclinava la rete verso il centro della barca e li faceva scivolare all'interno sul fondo, dove finivano la loro agonia disperata contorcendosi a lungo a ricercare l'acqua. Quando tornava a riva, a volte il mio papà andava a contrattare un po'. Parlavano a lungo in dialetto, prima di trovare un accordo; io me ne stavo lì, zitto ad ascoltare, forse è anche da lì che mi sono appassionato all'arte della contrattazione. Poi ce ne tornavamo a casa con il cartoccio nella borsa nera di pelle finta trapuntata. La mia mamma, che già lo sapeva, si era tenuta pronta una pentolina di smalto bianco con due manici, un po' scheggiata da una parte; ci metteva le cipolle che aveva già tagliato a fettine sottili e preparava il carpione, dopo aver pulito i pesci. Io assistevo a tutta l'operazione toccando ogni tanto col dito, i dorsi argentati per provarne la consistenza. Poi mica li mangiavo, non mi piaceva, allora, il gusto forte dell'aceto e avevo una paura terribile delle spine; negli stric' ci sono più spine che carne, in verità. Mio papà invece ne andava matto e se li mangiava di gusto, facendo grandi mugolii di soddisfazione e magnificandone la bontà con larghi gesti della mano, ma forse lo faceva per invogliarmi all'assaggio, come si fa con i bambini inappetenti. Per decenni non ho visto più nessuno pescare nel Tanaro. Chissà, o erano spariti i pesci o era scomparsa la fame. Mi dicono che adesso ci sono diversi extracomunitari che pescano dalla riva, ma di nascosto, forse è proibito farlo, ci vorrà la licenza. Forse devono essere ricomparsi sia i pesci che la fame.
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