Il Bar Baleta: Il gioco del Mah Jong.

Il gioco del Mah Jong - (gent. concessione Gino "Baleta" Gemme).

Questa è bella. Vedo dal blog di Partecinesepartenopeo, ottimo riferimento per le notizie dalla Cina, che a Tolosa al campionato mondiale di Mah Jong 2013, il primo dei 13 partecipanti cinesi si è classificato addirittura quarto e il secondo solo settimo (tre francesi ai primi tre posti). La scusa ufficiale, per coprire la vergogna del mancato primato nel gioco da tavolo più famoso del Celeste impero, è stato il jet lag, anche se nella squadra si mormora che i giocatori cinesi non sono più all'altezza, essendo il gioco stato sospeso per alcuni decenni da Mao in persona, in quanto divertimento capitalista e che bisognerebbe far giocare qualcuno di Honk Kong, dove non c'è stata crasi rivoluzionaria. Infatti la prima volta che ci andai, nel 1973, rimasi sorpreso, sentendo arrivare da ogni sottoscala e da dietro ogni tenda del mercato, il ticchettare tipico delle tessere del gioco sulle tavole di legno. Qualcuno dice che proprio questo picchiettio ha dato il nome al gioco stesso che significa letteralmente "Acchiappare l'uccello della canapa", simulandone il verso. Certo, io il gioco delle 144 tessere, lo conoscevo già da tempo. Lo si giocava indefessamente proprio al bar Baleta, arrivato non si sa come, forse da Ravenna, unico luogo italiano dove era conosciuto. Gino dice che lo aveva visto ad una fiera e non aveva voluto far mancare al bar la novità, forse desideroso, tanto per cambiare, di incrementare i consumi. Il gioco però, aveva un suo gruppo fisso di aficionados, presi naturalmente in giro senza pietà dagli altri avventori, che guardavano con una sorta di commiserazione i quattro, raramente otto giocatori, che, come carbonari si ritiravano nei tavoli di fondo della sala carte, mescolando le tessere con le stecche di legno prima di buttarsi nel bailamme dei raddoppi e dei conti complicatissimi, come isolati da quanto accadeva attorno. 

Non era un gioco come gli altri, che invariabilmente attiravano attorno ai tavoli numerosi spettatori, i cosiddetti angolisti a commentare e criticare furiosamente i giocatori. Al massimo se ne fermava uno o due, rimasti spaiati dalla quartina necessaria. Io ne sono stato un accanito appassionato, assieme a Barni, De florio, Chiappino, Cartocci e qualche altro. Ore ed ore, fino a notte tarda a discutere di tris di venti e di draghi, a ricordare una famosa chiusura pescando "la luna nel pozzo" o a passare dispiaciuto la stecca del "vento dell'est" che dà diritto ad un raddoppio supplementare (vi dice niente, eh?). Il fascino dell'oriente? Chissà. Quei piccoli parallelepipedi di plastica colorata, in fondo succedanei delle carte (il gioco alla fin fine non è che una versione un po' più complicata della scala quaranta), mi hanno sempre attirato morbosamente come tutto quello che arrivava dall'Oriente. Il disegno di Gino parla chiaro, il giudizio del bar ci giudicava come "i Cinesi" e io sono certamente quello col cappello a cono di fronte. Oggi credo che nessuno lo giochi più da queste parti. Io, ogni tanto tiro fuori quello che ho comprato tanti anni dopo in Cina, più per nostalgia che per altro, tocco le tessere con gusto, avvertendo lo strofinio dei polpastrelli sulla superficie di osso, scivolando poi sul dorso ruvido di bambù. Ascolto il rumorino secco, il "pigolio" che fa il pezzo toccando il legno del tavolo, guardo ad una ad una le incisioni complicate e barocche dei Fiori e delle Stagioni, quelle che identificano la bellezza del set e non avendo più giocatori con cui dividere il piacere, mi resta solo il gusto di sognare, prima di riporlo nella scatola di legno duro, un mondo lontano nello spazio, fatto di odori forti di pesce marinato, di spezia dolce, di caldo umido opprimente oppure lontano nel tempo, in quei tavolini della saletta dietro il vicolo, al di là di quella porta a vetri, chiusa per sempre.


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