aspettando Bruce mercoledì: "Springsteen, il Ribelle Mite e Forte"

Alessandro Baricco

Data di pubblicazione: 11/04/96

tratto da www.repubblica.it

 

Alla fine, in mezzo alla cerimonia del bis, è successo che un ragazzo è salito sul palco, ma con calma, non con l'isteria del fan fuori di testa, con calma, si è avvicinato al Boss (preso di sorpresa, esterrefatto) e semplicemente gli ha stretto la mano, e poi l'ha un po' abbracciato, ma con calma, come se fosse un vecchio amico. Poi se n'è andato. Si sono abbracciati. E basta, come dire: grazie. Poi magari sono io che me lo sogno, ma quel gesto aveva l'aria di significare molte cose. Strane. 

Bisogna capire che Springsteen è arrivato lì a fare un concerto che solo lui, credo, si può permettere: da solo - lui, le sue chitarre e un'armonica suonata da dio - a raccontare tante storie, una in fila all'altra, e sono canzoni, ma in un modo molto elementare, sono storie raccontate cantando. Tu le ascolti, e quello che vedi è il volto di una terra offesa. Non proprio sconfitta: offesa. È l'America, ma è simultaneamente tutte le terre in cui la vita avvizzisce nella storia quotidiana di uomini a cui è rubata la speranza. Cose sgradevoli da sentire. Bestemmie contro l'ottimismo fessacchiotto e rampante dell'Occidente furbo e ricco: storie dai margini, quelle che ci riesce così bene di dimenticare. Le raccontasse, il Boss, con tutto l'apparato ruffiano del baraccone del rock, suonerebbero un po' false. Ma lui lo fa chiudendosi in un teatro, abbassando al minimo la soglia della spettacolarità, e usando solo la voce, quasi solo la voce, come un narratore arcaico. Così qualcosa di autentico si cristallizza a poco a poco: e alla fine ci credi, a tutto quello, credi che è limpido, e sincero. Ti ha raccontato una certa miseria: ed era miseria vera. Se ci aggiungi il rock - che è rabbia, fessa o intelligente ma rabbia - e che in quelle canzoni brucia, da lontano, ma brucia, il risultato finale è una scossa lenta e dura di ribellione. non se ne vede tanta, se ci si guarda intorno. Qui ci si ribella col 740 in mano: una tristezza. Ma la ribellione quella che viene da lontano, quella che nasce dall'ostinazione della speranza, e dalla assurda pretesa di qualcosa di meglio, quella chi la vede più. Estinta. Assorbita dal collettivo torpore per la grande abbuffata generale, naufragata nell'orgia del buonsenso, delle soluzioni ragionevoli, del realismo dei tecnici. Sopravvive qualche scatto nevrotico di insofferenza: ma una ribellione forte, mite e forte, non esiste più. No ce l'hanno nemmeno più i giovani, che dovrebbero praticarla per contratto: sarebbe il loro compito: ma non siamo riusciti a spiegarglielo. Ce l'hanno nel DNA: ma qualcuno deve dirglielo. Be', quel rockettaro, là sul palco, con le sue due chitarre, e l'armonica appesa al collo, glielo dice. In un inglese masticato come un hamburger, con quei giri di accordi che fanno tanta pena ai musicisti colti, una faccia da teppistello invecchiato, glielo dice. E loro capiscono: salgono sul palco e vanno a stringergli la mano , e lo abbracciano un po': perché gli ha restituito qualcosa che era loro. Sono andato a sentire Springsteen. Gli ho visto fare quello che non riusciamo a fare noi, animali strani che chiamano intellettuali. Seccherà un po' ad alcuni farsi impartire lezioni da un americano che neanche ha studiato e magari non sa chi è Goethe. Ma non c'è santo, lì c'è qualcosa da imparare. Forse è un po' tardi per mettersi a studiare chitarra: ma spegnere le luci, liquidare tromboni e batteristi, togliersi il trucco da puttane, usare la propria voce e tornare a cantare storie: quello si può fare.

La Repubblica, 11 aprile 1996.

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