“Questo è un
luogo dove perdersi”. La vecchia
fabbrica Borsalino, un luogo della memoria
e un simbolo dell’eleganza di generazioni, suggestiona ancora e
trasmette ricordi che appartengono a chi ci ha preceduto.
La moda e la memoria sono donne che discutono
e impongono la loro supremazia, mentre intrattengono i visitatori, nell’atrio
della fabbrica, in attesa di un percorso nel museo del cappello. Il ritmo delle
battute è ironico e incalzante, mentre vengono sciorinati aneddoti e dati su
nomi di cappelli e di indumenti che hanno fatto la storia del costume. Termini
inconsueti come lobbia o berretto frigio innescano episodi e rapidi scambi di
battute sdrammatizzanti.
Brave le
attrici che riescono ad interessare e a coinvolgere una folla veramente
numerosa ed eterogenea di spettatori. Stupisce l’organizzazione e la leggerezza
scherzosa con cui vengono formati 3 gruppi al fine di rendere possibile un
itinerario teatrale nelle sale del museo. Tutto pare fatto giocosamente e con
la collaborazione degli spettatori stessi , visibilmente divertiti sia dalla
recitazione che dai particolari tecnici della suddivisione.
Una
digressione brillante e dal tono enfatico sulle mani, protagoniste del lavoro
manuale e rivelatrici, secondo l’arte della chirognostica, della personalità
dell’individuo, coinvolge con una comicità da intrattenitore da fiera e con la
musica di una fisarmonica. A tratti è
spontaneo ricordare quanto le mani siano state strumento di fatica e di lavoro
interminabile.
Al piano superiore, nel cuore dell’edificio,
una “borsalina” racconta cosa la fabbrica, per una donna di un’epoca a noi
ormai lontana, significasse: la possibilità di affrancare la famiglia dalla
povertà, l’orgoglio di guadagnare e di uscire dal ruolo di donna di casa, l’aspirazione,
con un salario in più, di far studiare i figli. Tutto ciò fronteggiando
l’ingiustizia del minor salario rispetto agli uomini, gli sguardi alle gonne al
vento, durante il tragitto in bicicletta per andare al lavoro, e le critiche a
priori a chi, per lavorare, veniva tacciata di trascurare la famiglia. Il tono
della recitazione è semplice, dimesso e privo di enfasi, l’effetto è toccante.
Infine il
mito dei 150 anni del cappello Borsalino, un simbolo che incontriamo nella sala
campioni della ex fabbrica e che, impersonato in modo convincente, ora sostenuto ora
sentimentale, ci fa vivere, attraverso i
cappelli che popolano la stanza, storie di vita passata. La pinzatura del cappello non fu solo una
moda, ma la giusta forma per consentire ai gentiluomini di togliersi
comodamente il cappello al cospetto delle signore, un gesto che si è perso nel
tempo e che suscita una dolce nostalgia di forme cavalleresche. Colpisce la leggerezza
e l’apparente facilità nel rievocare, con una recitazione efficace e naturale,
scene d’epoca che ci scorrono sotto gli occhi.
L’ultima
serata dell’anno al museo si conclude con i cori gospel dei “Joy Singers Choir”
mentre il pensiero corre a quanta bellezza e quanta fatica hanno avuto origine
e luogo in questi muri. La scelta di una fine d’anno teatrale scherzosa ma, al
contempo, dal tema ben radicato nella nostra città e nel nostro passato, è
stata coraggiosa e vincente perché apprezzata da un pubblico numeroso e
divertito. Uno spettacolo che speriamo venga replicato in altre occasioni.