L’apparenza
ingannevole e la realtà squallida, la pretesa di sopraffazione e l’umiltà
sottomessa, gli abiti sontuosi e la divisa domestica. Queste le tante
contraddizioni che si sovrappongono in un alternarsi continuo di finzione e
realtà, laddove uomini interpretano donne (come nell’intenzione originaria di
Genet), l’omicidio diventa rivalsa, anche se commesso nell’ambito di un gioco,
e l’odio e l’amore non si distinguono più.
La vicenda è
surreale, i due protagonisti interpretano le due sorelle Lemercier, domestiche
sopraffatte da un gioco folle nel quale interpretano loro stesse e la loro
padrona, coltivando un odio che fa culminare ogni volta la finzione con la
simulazione sempre più verosimile dell’omicidio della signora. I gesti non sono
neppure minimamente femminili, ma brutali e sempre violenti. Volutamente i
volti vengono atteggiati a maschere grottesche dipinte di bianco e rosso sulle
labbra. La pièce si apre con la furia distruttrice delle due sorelle nei
confronti di un interno borghese buio e illuminato da luci stromboscopiche, che
rendono i gesti irreali e privi di ragione. La follia iniziale prosegue in un
dialogo con le spalle alla platea, laddove ognuno dei protagonisti parla con la
propria immagine allo specchio, interpretando l’uno se stesso, l’altro la
signora. Gli specchi sono la chiave dell’illusione che avvolge completamente lo
spettatore e il gioco diventa molto più drammatico della realtà, perché perde
ogni gentilezza formale e consente ai ruoli una brutalità feroce. Ma l’odio non
è totale, si vena di sfumature di attaccamento malato (“la signora è buona, è
bella, è gentile”, ripetuto come un mantra) e di desiderio di sopraffazione, al
fine di possedere quanto a lungo desiderato.
Solo un
sacrificio finale può terminare una spirale di pazzia alimentata sino alla
conseguenza estrema e la scelta di portare al limite ultimo il gioco è
stigmatizzata nel finale da un’immobilità statuaria. Sulla scena rimane il
momento preliminare all’omicidio e un suonatore di fisarmonica, come nell’apertura
dello spettacolo, che propone un motivo sinistramente allegro.
Veramente
bravi Alessandro Macchi e Francesco Leschiera nell’interpretare ruoli
volutamente grotteschi eppure ricchi di sfumature e continue variazioni. Non
viene mai sfiorato l’aspetto caricaturale, poiché i volti deformati e la brutalità esagerata
sono funzionali alla finzione crudele e nulla eccede la necessità espressiva,
mentre tutto serve ad accrescere il dramma.
La tensione è continua e il taglio registico è volto a comprendere lo
spettatore in un crescendo drammatico dal quale i protagonisti non riescono a
svincolarsi, pur comprendendone anticipatamente l’epilogo. Uno spettacolo
notevole.