LEO E UNA STELLA ALLA FINESTRA
Leo amava sedere nell’androne buio del grande palazzo, in cima allo scalone di pietra. Era una tana dove sognare di nascosto dai grandi, che trafficavano giù da basso. Sua madre si era perduta per l’ennesima volta tra le stoffe, dietro allo scampolo di lana d’occasione; così il bambino era uscito di soppiatto dal retro del negozio e, attraverso l’umido cortile, era giunto ai piedi della scala che portava agli appartamenti. A quell’ora della sera, salendo gradino dopo gradino, si sentiva una piccola entità sconosciuta, immersa nell’oscurità che avanzava. C’era, scolpita sull’altissimo soffitto del pianerottolo, una finestra; e Leo, appoggiato alla ringhiera, fissava nel ritaglio di cielo nero una stella che brillava come fonte di splendente luce viva. Il bimbo non ne conosceva il nome, ma a vederla provava uno struggimento che non avvertiva mai nelle lunghe ore silenziose dentro casa. Il padre di Leo tornava per cena sul tardi, stanco e irritato; e non una volta la moglie volgeva un sorriso verso l’ingresso, ad accoglierlo. Il figlio, in piedi sulla soglia del soggiorno, si domandava perché nessuno si accorgesse di lui. Regnava un silenzio irreale nell’appartamento e non l’allegro chiasso di una casa abitata da un bambino. Lui non esisteva. Sapeva soltanto che i grandi aspettavano qualcuno che però non si decideva a far loro visita. Così, l’ospite agognato occupava tutte le loro discussioni come la cosa più importante al mondo; e il piccolo, ignorato, vagava come pallido fantasma da una stanza all’altra, attendendo con ansia il momento in cui sarebbe tornato ancora in cima alla sua scala.
C’erano sere in cui Leo, avvolto dalle tenebre dell’androne, credeva di vedere il futuro. L’astro sconosciuto era incastonato lassù, eternamente racchiuso dalla cornice del lucernario. Il bambino non avrebbe saputo dire se fosse nostalgia per un passato che non ricordava o il desiderio invincibile di conoscere il suo avvenire e di volare davvero, una volta cresciuto. Marzo stava ormai incalzando gli ultimi freddi dell’inverno e schiariva il cielo delle sei. L’aria tremolava di qualcosa. Qualcosa era nell’aria. A tavola, suo padre parlava ad alta voce e la distrazione che mostrava di solito nell’ora della cena aveva ceduto il posto a uno sguardo nuovo per la donna che sedeva di fronte; e lei, meno silenziosa di un tempo, gli rispondeva. I sorrisi della coppia furono presto risate, le discussioni parole sussurrate sul divano. Ma il figlio non esisteva e nessuno gli parlava. Parlavano tra loro, i genitori: dopo anni di attesa, sembrava che l’ospite avesse infine accettato il loro invito.
Da poco la donna aveva smesso di andare così spesso alla bottega. Si affaticava; ma il profilo le si era raddolcito e non di rado il piccolo la sorprendeva cantare a bassa voce durante le noiose faccende domestiche. Ignara della sua presenza nell’appartamento, nemmeno si accorgeva del bimbo che infilava la porta d’ingresso e se ne andava via da solo, come tutte le sere. E più tardi, seduto sulla scala con lo sguardo fisso sopra la propria testa, egli si immergeva nel blu più chiaro e tiepido che maggio regalava. Quell’unica stella sorrideva misteriosa e prepotente nella fetta di cielo dentro la finestra e Leo bramava di congiungersi a lei e al futuro che, sapeva, un giorno lo avrebbe attratto a sé. A casa nessuno capiva. A casa non era la sua casa. I fianchi via via più pronunciati della madre, le labbra distese del padre che ora la prendeva in braccio piano e la faceva girare su se stessa, sembrava non fossero per lui. Pure, negli ultimi giorni di luglio, udì una voce interna sussurrargli che presto ogni cosa sarebbe andata al proprio posto e che lui e le stelle avrebbero infine assunto l’esatta posizione nel firmamento.
Con agosto e il caldo soffocante dell’estate piena, Leo boccheggiava nella lenta spossatezza che lo prendeva da qualche settimana. Si sentiva vecchio e infinitamente saggio, come se quella vita silenziosa e solitaria stesse per giungere a compimento. Ora chiamava la sua stella per nome: e Regulus, grande e maestosa, brillava come mai prima di allora. La costellazione del Leone era una superba chioma di animale che dispiegava la luce astrale in tutta la sua fierezza. Il bambino, sempre più debole, la guardava estasiato come attraverso un sogno. Il momento era ormai vicino. Quella sera fatale si alzò in punta di piedi e a braccio teso, preso da follia improvvisa, per cercare di raggiungere il cielo attraverso il lucernario. Non aveva mai sentito tanto sonno; un torpore indistinto gli offuscava la vista ma seppe con certezza di non avere paura. In un ultimo sforzo verso l’astro che ammiccava materno dalla cornice, inarcò la schiena all’indietro e chiuse gli occhi. Fu un attimo: si sentì un leggero tonfo dalla scala, quasi il fruscio di uno spirito a sfiorare il suolo… giù, sempre più giù nell’oscurità della notte dei tempi e poi ancora in alto, nella luce primigenia. Una stella cadente abbassò gli occhi nel momento esatto in cui il prescelto, dopo lungo peregrinare nella polvere del sogno pre-natale, fu infine attratto a vita terrena.
Leonardo nacque quella sera stessa del mese di agosto, caduto dal cielo nella vita di quella coppia che, ancora incredula, stringeva a turno tra le braccia il piccolo fardello. La mamma, dal letto d’ospedale, non era mai stata così bella. Il nuovo arrivato sentì per la prima volta su di sé lo sguardo del papà che, emozionato, non smetteva di chiamarlo per nome. Era uscito dall’invisibilità dell’anima; e ora esisteva. Il suo minuscolo pensiero di angelo capì che da quel momento tutti i sorrisi e gli abbracci di casa sarebbero stati, dopo anni di limbo irrequieto, per lui. Non aveva atteso invano: era infine arrivato il tempo di vivere da essere umano nella sua famiglia.
Cari auguri di tutta la felicità possibile. Voglio simbolicamente dare un benvenuto, condiviso da tutta la redazione e dai lettori, alla figlia di Alessandro Doglioli e Barbara Prosio. Grazie, ragazzi. Un bacio al piccolo Jacopo, felice neo-fratellino, e... a presto CAPO!