Recensione divagata: YoYo Mundi all'Ambra del 7 aprile (e altre liberazioni)

La Resistenza da cosa. La Resistenza per chi. Il compleanno di uno dei gruppi più “resistenti” dell’alessandrino acquese: gli Yo Yo Mundi. 20 anni di carriera, cominciata gioiosamente nel 1989 e festeggiata martedì 7 aprile al Cinema Teatro Ambra di Alessandria. Sul palco, oltre all’animavoce di Paolo Archetti Maestri e la sua chitarra, troviamo la seconda chitarra di Fabrizio Barale, l’immancabile fisarmonica di Fabio Martino, Eugenio Merico alla batteria e Andrea Cavalieri al basso. Questo il nucleo tradizionale della band, oltre a una straordinaria sfilata di all star – amici e compagni di strada – incontrati nella lunga carriera musicale; tutti ad aggiungere una nota personale alla grinta folk rock, a tratti impegnata, ora esistenziale, della band.
Perché attendere il 25 aprile per cominciare a scrivere queste righe? Perché le frasi avevano bisogno di maturare nell’attesa del loro habitat naturale: l’anniversario della Liberazione che YoYo Mundi e compagni, sono certa, trattengono dentro come riferimento irrinunciabile ( e il loro ultimo lavoro, Album Rosso, ne è un derivato esemplare). Perché la Resistenza, i partigiani, lo sciopero di ogni tempo e luogo, l’eccidio di Cefalonia che ricorre come uno spettro di guerra nei brani dei nostri, sono cose che ti devono entrare dentro; ma nella storia capita che si spezzi un filo, che le generazioni perdano la memoria civile nel guazzabuglio demagogico dei capi, che salti un contatto per saturazione da retorica. E si sbanda, non si comprende, non si vuole più; respingi i figli che certi amici ti prescrivono per raggiunti limiti di età perché sai che non è ora, non è giorno, forse non è. Punto.
Allora, difficile lasciarsi totalmente coinvolgere dai temi in gioco; si comincia col giocare d’istinto, abbandonandosi alla musica che trascina. Sperando che passi l’Età Inquieta con cui ha inizio il concerto; godendo di una lenta Domenica pomeriggio di pioggia, che vede alla chitarra il nostro Alessandro Doglioli in qualità di ospite particolarmente ispirato. E all’improvviso, proprio quando la cortina di acqua ti sta ipnotizzando, le speranzebambine del futuro affiorano nei pensieri delle Donne dagli occhi grandi, che la corde e la voce di Enrico di Marzio fanno conoscere al pubblico presente dopo anni di assenza del brano dalla scaletta del gruppo. Mentre è possibile che i nostri figli mancati siano, nella coscienza collettiva, i ragazzi partigiani della Banda Tom, tragicamente uccisi dai nazifascisti e qui cantanti in 13; un dramma stemperato in parte dal Silenzio del mare e dalla voce d’onda cristallina di Elisabetta Gagliardi, cantante emergente alessandrina che a vederla lassù, col suo sorriso e le mani dietro la schiena, mi fa sperare in un avvenire diverso per i ragazzi oggi. Un avvenire diverso dal passato che certi fantasmi insistono a riproporre, fantasmi che si attaccano sotto la giacca, in un angolo, che mi rammentano un altro concerto all’Ambra quattro anni fa e Mauro Pagani a cantare De André e la sua Creuza de mà; che ora, in un altro tempo e in un’altra vita, dietro la lingua arrotata di Paolo Archetti Maestri, non sembra quasi più la stessa. Ma è il caso di affermare che le cose più belle, un colpo di vento a sovvertire gli animi e gli eccessi di malinconia, giungono all’improvviso… come l’irruzione chiassosa e colorata, sul palco, della Bandarotta Fraudolenta: scalcinata (in apparenza) orchestrina di provincia che vanta tra i suoi musicisti il maestro Giorgio Penotti e che, insieme ad altri allegri e divertiti partecipanti, interpreta – e a modo suo “disturba” – la surreale Solitudine dell’Ape.

Divago. La mente sta disertando il concerto, nonostante tutto e l’impegno di tutti. Le mani in grembo, accolgo l’unico degno Disertore – quello dalla guerra – che Boris Vian cantò decenni fa, ripreso stasera dalla voce di Alessio Lega e dall’incerto emozionato tono di Gianni Ghè. Ecco un modo di resistere: penso, desistere. Con convinzione. Decidendo di rinunciare a quello che altri hanno deciso per noi. O di attaccare una protesta: come hanno sognato i ragazzi in viaggio verso la Genova di qualche anno fa, al buio de L’ultima galleria che l’implacabile vocechitarra del cantautore Alessio Lega grida sul palco, in un brano in odore di potenze G8 e di vetrine e fuoco e sangue che le cronache di quei giorni hanno descritto – o occultato? A questo punto non c’è più niente da ridere: e Il funerale del clown ci ricorda che, quando questo accade, non vale più nemmeno la pena di vivere. Solo trattenendoci nello struggimento, Alla bellezza dei margini, riusciremo a ritrovare un barlume di serenità e di senso di vita che la crudezza del reale a volte ci strappa di dosso, in una Stalingrado (cover degli Stormy Six) partecipata dallo straordinario Paolo Bonfanti, ospite sul palco del fine concerto.
Io non so dire cosa è rimasto di quella sera. Sbandando al vento d’inizio aprile, ho perso un contatto, un brano è saltato e ne ho ricordato solo alcuni; altri mi aiuteranno ad attraversare la strada verso casa. S’era in odore di dopo terremoto, con l’Abruzzo sbriciolato anche sulle nostre teste; e stavolta La casa del freddo, con la sentita interpretazione delle percussioni di Diego Pangolino e di due membri dei 17 Perso, ha riportato soprattutto il gelo d’aria notturna al quale i superstiti s’abbandonano sotto le tende, stremati da ore di paura. Oggi, mi sento di dire, sono loro i veri resistenti: per la vita stessa, per la sopravvivenza necessaria dopo la morte. Solo allora ci saremo lasciati alle spalle l’unico passato che vale la pena dimenticare: quello che ci ancora a terra, costringendoci a restare sempre uguali a noi stessi e che impedisce il cammino verso la reale liberazione umana.

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